BIOGRAFIA

Nato a Montichiari il 15 gennaio 1938, cresciuto a Vighizzolo, era stato ordinato sacerdote il 23 giugno 1962.

Dopo la prima esperienza come curato a Verolanuova (1962-1977), dal 1977 al 1988 era stato parroco di Botticino Mattina e dal 1988 al 1991 di Borgosatollo.

Negli stessi anni aveva ricoperto anche l’incarico di assistente ecclesiastico della Coldiretti. Nel 1991 in seguito alla malattia era stato costretto a rinunciare alla parrocchia, ritirandosi a Montichiari dove da allora ha continuato a svolgere il suo ministero.

Dopo aver subito il trapianto di cuore si era messo al servizio della parrocchia di Santa Maria Assunta prima con l’abate monsignor Bertoni e poi con monsignor Fontana. Anche nell’ultimo anno, nonostante le condizioni di salute fossero peggiorate e rendessero difficili i movimenti, non mancava la celebrazione della Santa Messa domenicale in Duomo. Proprio durante il periodo trascorso a Montichiari si era fatto conoscere per la pubblicazione delle sue «Briciole di bontà», brevi poesie di carattere religioso che offrivano sempre uno spunto di riflessione e che distribuiva su piccoli foglietti a chi incontrava. Testi che sono poi stati raccolti in cinque libri. Allo stesso modo negli ultimi anni aveva utilizzato internet come strumento di evangelizzazione insieme alla sua mail settimanale «Teniamo viva la Parola» di riflessione sulle letture della Santa Messa domenicale.

Una presenza assidua e quotidiana nel confessionale, la disponibilità instancabile all’incontro con la gente e la semplicità contagiosa con cui, anche nei momenti difficili, faceva sempre trasparire la sua fiducia in Dio. Sono alcuni dei caratteri che hanno contraddistinto.
Don Luigi Lussignoli salito alla casa del Padre il 18 marzo 2017 a Montichiari all’età di 79 anni. 

don Luigi Lussignoli

EL SOCH DE NEDAL: Il ceppo di Natale

Con l’inverno nelle campagne la vita cambiava. La nebbia copriva tutto con una coltre impenetrabile. Le piante alzavano rami senza foglie, come braccia tese ad accogliere la brina che scende dal cielo. Sotto le zolle i chicchi di grano, impregnati di umidità, si preparava­no a vita nuova. Gli uomini finalmente potevano godersi il riposo. Ci si rifugiava nelle stalle, unico posto un po’ riscaldato: Non c’erano termosifoni, ma solo l’alito delle mucche; non c’erano tendaggi ricamati, ma abbondanti ragnatele. In compenso si stava volentieri insieme. Si raccontavano le storie dei tempi passati. Si giocava a carte. Si preparavano gli attrezzi per il lavoro futuro. Si pregava. Quanta pace! Quanta compagnia! Quanti sogni coltivati!

Le giornate passavano lentamente, ritmate da alcuni riti tradizionali: l’uccisione del maiale, la Santa Lucia, la raccolta del muschio, il pre­sepio.

Arrivava così Natale. La vigilia, fin dall’alba, c’era movimento. Le donne riordinavano la casa, pulivano i pavimenti impregnati non di cera ma di terra, estraevano dall’unica credenza tutti i piatti, pre­paravano la tovaglia rossa profumata di pulito. Sotto i porticati gli uomini mettevano ogni cosa al proprio posto. Il cortile diventava l’aia pronta per le grandi feste. Il papà portava alla mamma quanto bastava per il cenone della vigi­lia: il cappone appositamente ingrassato, il primo salame della stagio­ne, l’anguilla marinata, le verdure dell’orto.

II pomeriggio era dedicato ad altre pulizie. Insieme andavamo in chiesa. Là ci attendeva il parroco. La nonna ci aiutava a fare l’esame di coscienza, ci raccomandava di fare bene ogni cosa.

Poi uno alla volta, dal più piccolo al più grande, salivamo al confes­sionale.

Quando tornavamo tutti insieme a casa, sentivamo nell’aria il profumo di bollito e di tante altre cose buone. Calato il sole, il buio avvolgeva nel silenzio tutta la campagna e invi­tava all’intimità. Allora, al richiamo della mamma, ci mettevamo a tavola: l’appetito era forte, ma eravamo certi che sarebbe stato appagato.

Era bello stare insieme, mangiare insieme, parlare insieme. Condividevamo i doni della Provvidenza e i frutti del lavoro vissuto nella fatica. Quella cena era la più significativa dell’anno.

Alla fine della cena i nostri occhi di ragazzi tendevano a chiudersi: il sonno ci chiamava a letto, ma noi eravamo tenaci a non lasciare la tavola: tutto lì era pieno di sapori, di gioia, di pace.

Era il papà ad alzarsi per primo. Con la mano ci faceva cenno di pazientare. Usciva sotto il portico e rientrava portando con le sue braccia nerboru­te “èl soch piö gross” (il ceppo più grosso). Lo metteva nel mezzo del focolare. Sopra gli tracciava con la cenere una grossa croce.

E gli dava fuoco. Noi stavamo a guardare. La legna era poca; l’inverno lungo e rigido. Che “èl soch piö  gross” (il ceppo più grosso) bruciasse durante la notte, mentre noi erava­mo sotto le coperte, sembrava uno spreco. Con la trepidazione che ci veniva dal rispetto ai genitori, quasi sottovo­ce, chiedevamo: “Papà, perché lo bruci adesso? Stiamo per andare a dormire. Brucia inutilmente”. Stretti attorno ai suoi pantaloni, con lui tendevamo le mani per senti­re il primo calore. I suoi occhi brillavano di emozione: era la tenerezza del padre felice di comunicare ai figli la sapienza della vita. Con la calma dei momenti solenni ci rispondeva:

“Questa notte nascerà Gesù. La sua mamma vedrà il fuoco acceso. Scenderà qui in casa nostra a scaldare i “panezei” (i pannolini). E Gesù sarà contento d’essere venuto sulla terra, perché sentirà quan­to gli vogliamo bene”.

Porte e finestre erano chiuse. Per la nostra fantasia di ragazzi non restava altra entrata che il camino. Con curiosità ci mettevamo a guardare su tra il buio.

Salivano le faville: sembravano partite dal nostro cuore e luminose dei nostri sentimenti.

“Èl soch piö  gross” (il ceppo più grosso) era diventato “èl soch de Nedal”.

Andavamo a dormire sognando che quella notte avremmo ospitato la mamma più dolce: Maria.

Al mattino, ancora insieme, partecipavamo alla Messa Solenne di Na­tale. I canti facevano risonanza alla gioia di tutti. Salivamo a ricevere la Comunione.

A casa il “soch de Nodal” si era consumato. Rimaneva la cenere e qualche tizzone. Ormai non occorreva più. Gesù aveva trovato un altro calore: quello dei nostri cuori che erano per Lui.

GLI INIZI DELLA MIA VOCAZIONE

Era il 1946. A quei tempi ogni anno nel duomo di Montichiari, all’inizio della settimana santa, si celebravano le Sante Quarantore. Anche le frazioni vi partecipavano, alternandosi con orari programmati per l’Adorazione davanti al Santissimo Sacramento, esposto solennemente in alto, sopra l’Altare maggiore.

Avevo solo otto anni. I miei genitori mi portarono per la prima volta a questo evento liturgico per me tutto nuovo. L’appuntamento per i vighizzolesi era stabilito per le ore nove, all’inizio del “viale delle castagne amare”. Toccava ai ragazzi aprire il corteo, ma gli unici presenti eravamo io e i miei fratelli.  Fu in quel momento che Don Luigi Frusca mi venne vicino, con tono deciso mi disse di portare la croce e senza aggiungere altro mi fece indossare in fretta la cotta bianca.

Così vestito, provai un forte disagio, mi sentii di un altro mondo; temevo di essere deriso; cercavo il volto di mia madre per averne il suo consenso.

Inoltre nelle mie piccole mani reggevo una grossa Croce. Ero già abituato a maneggiare il manico del badile, del piccone e della zappa, ma un oggetto sacro per me era troppo.

Al cenno del sacerdote diedi inizio, con passi lenti, al corteo. Alle mie spalle sentivo la gente che mi seguiva pregando e cantando. Man mano avanzavamo, la croce si faceva pesante e le mie braccia dolenti; desideravo che il percorso finisse alla svelta e con gli occhi cercavo la facciata del Duomo, in modo da capire quanta strada mancasse.

Ce la misi tutta. Tenni duro fino alla fine. Non potevo darmi per vinto davanti agli altri e poi mi sentivo investito di un grande compito: condurre tante persone a Gesù.

In Duomo, Don Frusca mi fece salire in presbiterio e inginocchiare accanto a Lui sul primo gradino dell’Altare. È stato un incanto! In mezzo a tanta luce, tra fiori e candele, avvolto dal profumo dell’incenso, davanti al grande altare con tovaglie bianche e pizzi preziosi, l’ Ostensorio in alto con al centro l’Ostia grande di Gesù vivo e vero.

Mi sentii afferrato da tutta quella realtà, che per me aveva il fascino del Paradisio.

Per tutta l’Adorazione rimasi in ginocchio, immobile, con le mani giunte.

Tornati a casa, durante il solito pranzo consumato insieme attorno allo stesso tavolo, la mamma con tono pacato disse a tutti: ”Avete visto quel bambino sull’altare come era composto? Dovete imparare anche voi a essere così”.

Lei, dal centro della navata, non mi aveva riconosciuto. Intervenne subito uno dei miei fratelli. Indicandomi con il suo dito puntato sulla mia spalla, disse: “Mamma, quel bambino è Luigi, questo qui”. Lei non accettò discussioni e subito aggiunse: “Se era Luigi, vuol dire che stando vicini a Gesù si diventa più buoni”.

Dopo pochi giorni, il pomeriggio del mercoledì santo, con i miei compagni feci la Prima Confessione e il mattino dopo del giovedì Santo ricevetti la Prima Comunione. Ricordo l’intensità di quei momenti e di quelle preghiere, le formule misteriose del catechismo imparate a memoria: non ci furono regali, né vestiti particolari, né festa con invitati, ma solo un grande desiderio di ricevere Gesù e di essere più buoni.

A Don Luigi Frusca bastarono questi episodi perché io superassi l’esame di idoneità. Lui prima si accordò con mamma, poi mi chiamò a casa sua, incominciò a farmi imparare le risposte della Messa, tutte in latino; quando mi trovò preparato, mi volle vicino all’altare a servirgli per la prima volta la Messa.

Incominciai così la mia lunga carriera di chierichetto, unico a Vighizzolo: tutte le mattine mi portavo in chiesa puntuale prima delle ore sei; percorrevo la strada da solo, d’inverno col buio ancora fitto, tante volte anche con la neve, avvolto nel mantello che la mamma mi sistemava.

Nacque in me la mia passione per la chiesa e anche la mia vocazione sacerdotale.

Frequentavo volentieri la casa di Don Luigi Frusca: era povera e semplice come la mia; assistevo alle sue cene: sobrie come le mie; sfogliavo il suo giornale, guardavo i suoi pochi e vecchi libri.

In chiesa ordinavo i paramenti, mantenevo freschi i fiori dell’altare, suonavo le campane, salivo sul campanile per il suono dell’ “Allegrezza”, alla sera guidavo la recita del Rosario. L’oratorio non c’era, l’unico spazio libero era quello attorno alla chiesa: inventavo di tutto per trattenere i ragazzi della mia età o più piccoli; oltre ai giochi raccontavo a puntate storie di ogni tipo.

Don Luigi Frusca, vedendo questa mia passione, un giorno mi diede da leggere la Vita di S. Giovanni Bosco. Lasciò che la leggessi e poi mi chiese “Ti piacerebbe diventare amico dei ragazzi come Don Bosco?”

Lui notò che ero rimasto affascinato dalla figura e dall’opera di quel santo prete. Venne a incontrare i miei genitori: mi ricordo che si intrattennero, in piedi, sotto il portico.

La sera, durante la frugale cena, mio padre mi disse: “Scegli tu se vuoi fare il prete. Guarda che la strada è lunga e difficile. Di soldi non ne abbiamo; ma se tu ti impegnerai, noi faremo altrettanto”.

Il 16 ottobre 1949 su un carretto trascinato dal cavallo, i miei genitori mi accompagnarono in seminario con tutto il corredo richiesto e mi affidarono ai superiori.

TRE RICORDI PER UNA GRANDE PASSIONE

E’ bello far memoria del passato. Significa: lodare il Signore per le grazie che ci ha dato, rivedere numerosi volti amici, riascoltare cuori con i quali si sono condivisi eventi lieti e tristi, rivivere la fatica per l’edificazione del Regno di Dio. Conoscere il passato aiuta a capire il presente.

Di tanto in tanto rivisito con ricordi cari il servizio sacerdotale che in nome di Cristo ho cercato di svolgere per quasi undici anni a Botticino Mattina. Ora mi vengono in mente tre episodi. Sono semplici, ma per me sono emblematici.

 

Settembre 1977

Ero parroco da pochi giorni.

Venne riunito il Direttivo delle Acli. Era urgente pagare alcuni debiti; ma la cassa era vuota.

Con stupore vidi i consiglieri presenti prendere dal proprio portafogli quan­to più disponevano per raggiungere la quota necessaria.

Capii che stavo con gente “non di parole, ma di fatti”, capace di as­sumersi responsabilità e di pagare di persona.

Anch’io presi dalla tasca quanto avevo e lo aggiunsi al loro. In quel momento iniziai veramente ad essere loro parroco: nella solidarietà, nella condivisione, nella comunione.

 

Marzo 1982

Ci fu la Missione Parrocchiale.

Sette Sacerdoti Passionisti visitarono le famiglie, animarono i centri di ascolto, predicarono, confessarono, celebrarono. Sono stati quindici giorni di Esercizi Spirituali.

Organizzammo la Messa anche nelle “cave di marmo”.

Le cave sono uno dei simboli del paese: lassù ragazzi, giovani e uomini hanno vissuto esperienze intrise di fatica, di speranza, di umanità.

Lassù in mezzo alle rocce i cavatori prepararono un piazzale, allestirono un altare con un masso e issarono una croce di ferro.

Invitarono a salirvi i loro familiari e i loro amici. Vi si radunò molta gente: pen­sionati con il cuore carico di nostalgia, nonne con il fiato grosso, ra­gazzi e adulti. Quel pomeriggio le mine cessarono di sparare, i martelli pneumatici di battere, le ruspe di spostare rottami di roccia

Nell’iniziare la Messa, la montagna graffiata dalla forza dell’uomo, diventò come una grande chiesa: uno scenario pieno di mistero ci av­volgeva. Attorno all’altare stavano i cavatori, ritti nelle loro tute, col capo fa­sciato dai loro caschi: silenziosi, pensosi, devoti.

Eravamo come sul Calvario: Cristo stava per offrire in sacrificio gradito al Padre la storia di quanti là aveva­no consumato o stavano consumando le loro energie.

E stata quella la prima Messa celebrata nelle cave. Siamo tornati in paese con la convinzione che ogni gesto, ogni movi­mento, ogni rumore delle cave fa parte della grande liturgia di lode che sale a Dio dall’intero universo.

 

18 giugno 1988

Fu l’ultimo giorno della mia permanenza a Botticino come parroco. Sostai in chiesa davanti al Tabernacolo. Affidai al Signore il seme sparso nel cuore della gente. Pensai alle vicende di tante famiglie, ai malati, ai defunti accompa­gnati al cimitero, al futuro dei giovani. Per tutti pregai.

Prima di uscire dalla chiesa baciai il pavimento: sentivo quella terra impastata con la mia vita. Giunto sul sagrato, mi venne incontro un uomo. Mi mise la sua grossa mano sulla spalla. Mi guardò negli occhi e mi disse: “Per me in questi anni il prete è diventato importante”.

Sono tre episodi semplici, ma in me sono scolpiti con i caratteri indelebili della roccia. Al Signore dico: “Ti lodo. Perché riunisci e vivifichi le nostre comunità parrocchiali e a noi doni le tue benedizioni”.

UN'ESPERIENZA BELLA MA VELOCE COME UN SOGNO

II tempo passa. Diventa ricordi di fatti lontani e di ieri. Nel ricordo c’è amore, c’è sapienza, c’è curiosità di co­noscere meglio la vita. Tutto viene. Tutto vive. Tutto finisce. Tutto ricomincia in altro modo. Ricordare è superare la distanza dello spazio e del tempo.

La mia esperienza di parroco a Borgosatollo è stata bella, ma veloce come un sogno.

 

L’inizio: 18 ottobre 1988

Cari parrocchiani, scrissi sul primo bollettino, sono tra voi da pochi giorni. Li ho vissuti intensamente e il mio animo e già pieno di emozioni.

L’accoglienza avuta mi ha rivelato il vostro calore uma­no e la vostra stima per il prete. Quando giunsi alle prime ca­se, un bambino, sostenuto in braccio dalla mamma, mi consegnò un mazzo di fiori, mi guardò e mi sorrise. Fu come se qualcuno mi dicesse: “Non temere. Con te c’è il Signore e tanta gente”. Man mano in corteo entravo tra le vostre case ne ebbi la conferma: una folla mi attendeva. I giovani mi vennero incontro con entusiasmo, tenendo­si per mano; mi avvolsero in una catena di fraternità: fu l’abbraccio della gioventù con il parroco.

Nella chiesa gremita, con voi e per voi pregai e cele­brai l’Eucaristia. Ricevendo le chiavi della chiesa, voi siete entrati nella mia vita. All’omelia vi dissi:

“Cercherò di fare il parroco soprattutto con cuore. Consideratemi servitore di Cristo e operatore di pace”

Ora incomincio a muovere i primi passi: ammiro le strutture sistemate con arte e sacrificio, seguo le liturgie partecipate e animate, imparo i vostri nomi, entro nei cortili e nelle case, visito i malati. Voi già mi confidate e affidate le vostre pene: vorrei essere il Buon Samaritano che si china sul fratello ferito per la strada della vita. Al Signore chiedo: “Aiutami ad essere un parroco dal cuo­re saggio” .

 

L’evento: quaresima 1990

Venni ricoverato in ospedale. Mi diagnosticarono la Mio­cardiopatia dilatativa: il cuore era già seriamente dilatato e con scarsa forza con­trattiva. Mi prescrissero la cura, mi fissarono i controlli periodici, mi raccomandarono le precauzioni del caso.

Dilatare il cuore su misura del cuore di Gesù è l’ideale del cristiano ed è la vita del prete: è un lavoro faticoso, ma l’unico necessario. Si tratta di amare ognuno che ci viene incontro come Dio lo ama. Essere celibi per il Regno dei cieli non significa reprimere l’amore e spegnere il cuore.

La sera del Giovedì Santo successivo, nell’omelia dissi,: “I medici mi hanno trovato il cuore ingrossato. Ora posso e devo amarvi con un cuore più grande”. La gente mi ascoltò e rimase sorpresa.

 

Il congedo: giugno 1991

Al Vescovo scrissi:

“Il cuore non ce la fa. Sono di inciampo al cammino pa­storale. Mi unisco a Gesù in croce. Con Lui dico: tutto e compiuto”.

Alla gente, al temine dell’ultima messa concelebrata con Mons. Mario Vigilio Olmi vescovo ausiliare, dissi:

“Per me il ministero di parroco è ormai consumato. È necessario che la guida di questa bella e benedetta par­rocchia venga affidata ad altri. A me sono bastati tre anni per amarla e portarla in cuore. Anche se non farò il parroco, per tutti sarò sempre Sacer­dote di Cristo.

Il mio inizio tra voi fu meraviglioso. Vi avevo promesso che avrei fatto il parroco soprattutto con cuore. Ebbene, la malattia mi ha colpito proprio il cuore: il mio cuore ora è stanco di bat­tere, ma non di amare. Sento che non posso fare quello che devo e voi meritate. Per questo ho rimesso la parrocchia nelle mani del Ve­scovo.

Nel momento attuale desidero testimoniarvi che quello che conta e fare la volontà di Dio. Non mancheranno le occasioni di incontrarci. A tutti un saluto grande”.

L’ ULTIMO SALUTO AL MIO CUORE

Con schiettezza

e ancor più con premura

mi hanno detto:

“E’ venuto il tempo del trapianto.

Ne è stata chiesta l’urgenza”.

 

Questa comunicazione

non mi è giunta  nuova,

da tempo la presagivo.

Il Signore

mi ha conservato nella pace.

 

Per me era giunto il distacco

non dalla casa,

non da un bene,

non da una persona,

ma dal mio cuore.

 

Ho appoggiato la mano

sul petto

e sono stato ad ascoltare

i suoi battiti

deboli e irregolari.

 

Sembrava dirmi:

“Sono sfinito e sformato,

ma continuo a battere.

Tu vivi,

perché io non mi fermo”.

 

Provocato da queste sensazioni,

ho iniziato con lui

un colloquio intimo

che  è continuato

fino alla sala operatoria.

 

«Cuore mio.

Dio ti ha fatto per  me

accanto a quello di mamma.

Lei per prima ha percepito

i segnali della tua presenza.

Da allora

hai continuato a pulsare

notti e giorni,

mesi e anni,

per me,

 

senza mai fermarti,

senza mai stancarti:

i flutti di sangue

che muovi in un giorno

raggiungono 80 ql.

 

Chi è capace di fare

un lavoro così immane

per così tanto tempo

senza concedersi tregua

come fai tu?

 

Con me hai vissuto

gli eventi della mia vita:

le emozioni più intime,

le fatiche più esigenti,

le tappe più indimenticabili.

 

Insieme abbiamo sperimentato

la spensieratezza dell’infanzia,

le scoperte della crescita,

il turbinio dell’adolescenza,

lo slancio della giovinezza.

 

Nel Battesimo

sei stato consacrato da Dio Padre.

Nella prima Comunione

ti sei fatto tabernacolo

dell’Eucaristia.

 

Nella Cresima

sei stato colmato di Spirito Santo

Nell’ Ordinazione Sacerdotale

sei stato unto per sempre

“Cuore di prete”.

Da allora insieme

abbiamo cercato

di amare e di servire

senza misura

in nome di Cristo.

 

Quante emozioni,

quante gioie,

quante sconfitte,

quante trepidazioni,

quante speranze!

 

E’ venuto poi il giorno fatidico:

9 marzo 1990.

I medici mi hanno detto

che eri dilatato

e affaticato.

 

Eri diventato

“un grande cuore”:

forse per un virus,

forse per il troppo lavoro,

probabilmente per amare di più.

 

Anche se malato,

tu, cuore di prete,

mi hai concesso

di continuare

nel servizio alla Chiesa.

 

Ora stai per separarti da me,

ma so che torneremo

insieme per l’eternità

con la Risurrezione della carne.

Arrivederci, cuore mio!.

 

Mi daranno un altro cuore:

Che il donatore non soffra!

Lo ringrazio del dono.

E i battiti del nuovo cuore

siano come i tuoi, cuore mio».

 

DOPO IL TRAPIANTO DI CUORE

Questa parte della mia esperienza la raccontai in cattedrale il giovedì santo del 2003 davanti al Vescovo e a tanti sacerdoti convenuti per la solenne concelebrazione della Missa Chrismalis. La raccontai perché il parroco di allora aveva informato il Vescovo Mons. Giulio Sanguineti e questi mi aveva chiesto di presentarla.

A – Feci allora e faccio adesso questo gesto perché è cosa buona e giusta rendere grazie

1)Dico il primo grazie a Dio: mi sta dando, oltre a un supplemento di vita, un  gusto nuovo della vita. Feci e sto facendo un’ esperienza lunga, faticosa… ma benefica.

Una sera in ospedale un medico mi disse: “Abbiamo sollecitato il Centro Trapianti di Padova…Non è opportuno aspettare oltre”.

Gli risposi “Grazie per questa sua informazione. Grazie soprattutto per avermi concesso qualche minuto del suo prezioso tempo … Sono in questa stanza da molti giorni … Sembrano non finire… ma non sono vani … mi stanno arricchendo … mi stanno purificando… mi danno un senso nuovo della vita … Scusi, dottore questo mio linguaggio da prete”.

Lui aggiunse: “Anch’io dico grazie a lei … Ho bisogno di parole simili”.

 

2)Un secondo grazie lo rivolgo al nostro Vescovo Mons. Giulio Sanguineti e al Vescovo ausiliare Mons. Vigilio Mario Olmi. Li ringrazio per le loro visite … Mi raggiunsero perfino a Padova nonostante i loro impegni … Li ringrazio per il loro affetto e per le loro parole.

 

3)Un altro grazie lo dico oggi a vari sacerdoti … per le preghiere, la solidarietà, i messaggi.

Un papà, compagno di stanza, mi disse: “Lei è fortunato … Vari preti vengono o mandano a salutarla … Noi, se ci va bene, abbiamo la moglie, qualche figlio e pochi altri”.

Quel papà mi definì “fortunato”. Io specifico: “Sono benedetto”… E’ una grazia essere Sacerdoti … E’ una grazia far parte del  Presbiterio … Lo sperimentai … Lo sento … Desidero esserlo di più”

 

B – Perché accettai il trapianto?

Non nascondo di avere avuto momenti di buio

Arrivai a gridare sullo stile di Geremia: “Dio, mi stai calpestando!…”.

Invece Dio mi è vicino e mi plasma come il vasaio dà forma al vaso.

L’obbedienza non è solo una virtù, non è solo un voto o una promessa …

In Gesù Obbediente, anche la nostra obbedienza è fonte di salvezza …

Quante cose vanno a posto se siamo disponibili.

Ecco … feci il trapianto per obbedienza:

se fosse andato male, avrei obbedito;

è andata bene … devo farmi più obbediente.

Dire con Gesù nel Getsemani: “Padre, non la mia ma la tua volontà sia fatta”, dà pace.

 

C – Ricevetti il trapianto del cuore la notte tra il sette e l’ otto dicembre 2002. Questo per me è un segno:

1) Un giornale di Padova scrisse:” Il cuore di un Sudamericano batte nel petto di un prete bresciano”.

Quando rileggo quell’articolo, mi sembra capire che nella mia carne è stato abbattuto un muro di divisione.

Come dice San Paolo nella sua  lettera agli Efesini (2, 14): “Non siamo più stranieri né ospiti… Tutti siamo familiari di Dio”

Mi dissero che questo cuore era di un extracomunitario … ora fa parte di me.

Mi dissero che veniva da lontano … ora mi è tanto vicino .

Mi dissero che era di un girovago … che non aveva casa … ora il mio petto è la sua casa.

Lui fa vivere me e io faccio vivere un po’ del mio donatore.

 

2)Una mamma mi fece avere una statuetta della Madonna con un biglietto … Vi è scritto: “Il suo cuore nuovo è un dono di Maria”

Ora a Maria chiedo una grazia: “Madre dell’Unico Sommo ed Eterno Sacerdote aiuta noi tutti a dire il nostro “ECCOMI”, generoso e definitivo per essere sempre più preti, per rendere sempre più vero e luminoso il nostro presbiterio”

 

Al mio donatore dico … meglio grido … CON TUTTI VOI  … il mio grazie

ANCHE LA MALATTIA PUÒ FIORIRE

E’ una verità semplice e grande allo stesso tempo, quella che vorrei riuscire a testimoniare:

nella nostra debolezza si rivela la potenza di Dio; anche la malattia può essere un deserto che fiorisce.

Con pudore e trepidazione vi comunico un pezzo della mia anima. Ecco alcuni passaggi da me vissuti. Li descrivo, raccontando quanto mi accadde e i sentimenti che avvertii in me.

 

1) L’ INIZIO DELLA MALATTIA

Ero parroco da poco tempo in quella parrocchia. Mi sembrava di viaggiare a grande velocità sulle strade dei miei progetti pasto­rali. La malattia mi si presentò davanti inaspettata e irrompente, come un vigile con la paletta in mano che ferma per il controllo. Ricordo i particolari della prima visita medica.

Terminato l’ elettrocardiogramma, il dottore mi disse:

“Conosco due tipi di malati: quelli che dicono di avere tanto ma hanno poco e quelli che dicono d’avere poco ma hanno tanto. Non vorrei che lei fosse uno di questi ultimi”

In ospedale mi confermarono la stessa diagnosi: miocardiopatia dilatativa al terzo livello.

Non mi pareva possibile. Consultai altri specialisti. Il verdet­to fu sempre lo stesso. Mi sentivo confuso.

Non accettavo consigli nemmeno da chi mi voleva bene. Mi ribellavo perfino al Signore.

E il Signore mi concesse la grazia di fare ”verità in me”. Capii d’essere come lo stagno. Lo stagno appare limpido finché è tranquillo. Bastano alcune raffiche di vento che dal suo fondo salgono fango e foglie, morte da chissà quando.

Così dal mio intimo, con la malattia, emersero passioni e ombre che oscuravano il sole della mia anima.

Mi ritenevo un buon prete che lavorava per il Regno di Dio: era an­che vero.

Mi  accorsi però che le riuscite personali, le compiacenze dei fedeli, la soddisfazione del protagonismo erano un buon concime per il mio io. La malattia mi demolì quanto di effimero andavo operando.

E Dio mi diceva: “Esci dalla tua terra e va dove io ti mostrerò”.

 

2) UNA VOCAZIONE NUOVA

I medici e i superiori insistevano perché ridimensionassi la mia vita.

Mi chiedevo: “Cosa vorrà il Signore da me?”

Prima di rinunciare alla parrocchia, con il tormento nell’anima, tornai in ospedale dal medico che mi seguiva: era una donna stimata per competenza professionale e per la sua fede.

Le chiesi con insistenza medicine più forti. Lei mi consigliò: “Il suo cuore non può fare più di tanto. La­sci l’attività pastorale. C’è bisogno di confessori che sappiano ascoltare. Diventi prete dell’ascolto”.

Non so se quella dottoressa fosse ispirata. Comunque sia, ora non sono più parroco. Ascolto il cuore del mondo, Ascolto il gemito di tanti fratelli. Mi dedico soprattutto al ministero delle confessioni. Cerco di diffondere speranza.

Dentro ho pace. Sono certo che Dio fa sentire a ogni età la sua chiamata e volge tutto al bene per quanti lo amano.

 

3) IL CENTUPLO PER UNO

Pietro disse a Gesù: “Maestro, noi abbiamo lasciato tutto. Che cosa avremo?”.

Gesù rispose: “I1 centuplo su questa terra e la vita eterna”.

Più volte nel mio ministero constatai che questo è vero. La malattia me lo rese ancora più evidente.

Ero in ospedale e stavo male. MI parlavano di trapianto del cuore. Immobile nel letto rividi la mia vita. A una mia nipote, venuta a trovarmi, chiesi di scrivere questi pensieri che le dettai:

« Non ho fatto famiglia mia, ma quante case si sono aperte a me e mi hanno accolto.

Non ho generato figli secondo la carneianza, ma quanti ragazzi e giovani ho aiutato a conformarsi a Cristo!

Non ho avuto la sposa, ma pochi conoscono il cuore di donna come il prete.

Non ho avuto lo stipendio della professione, ma la generosità dei fedeli mi è stata superiore.

È arrivata la malattia, ho rinunciato alla parrocchia, ma ho risco­perto la grandezza del pregare e del confessare.

Per me è giunto il tempo di fermarmi e di tacere, ma il Signore mi rivolge parole di vita.

Costretto a letto, guardo il Crocifisso appeso alla parete e Lui mi insegna a stare in croce e a dire: “Signore, ti appartengo”.

Se giungesse la chiamata definitiva, sarei pronto a rispondere: “Eccomi”;

e ho la speranza che il Signore mi dirà: “Sei stato fedele nel poco, entra nella mia gioia”

E’ vero!

Il Signore dà il centuplo già su questa terra.

 

4) L’ ATTIMO PRESENTE BASTA

La malattia non è solo sofferenza, è anche limitazione di sé e man­canza di progetti.

Era un giorno piovoso e grigio. Stavo in casa e mi sentivo molto triste. La vita mi appariva vuota e inutile. Pensai di pregare. Lo feci veramente. Ricordai la parrocchia, i confratelli impegnati con me nel ministero e al­tre persone. Il tempo mi passò veloce. Alla fine sentii tanta pace e con gusto mi dissi: “Come è importante un prete che prega”.

Un’altra volta partecipai a un incontro vocazionale per gio­vani. Quei giovani parlavano di progetto di vita, si chiedevano qua­le progetto Dio avesse su di loro. La parola “progetto” focalizzò la mia attenzione. Intervenni e dissi:

“Fa piacere sentire i giovani parlare di progetto. La vita deve svolgersi secondo un progetto. La malattia però mi ha fatto capire una cosa che vi voglio comunicare. Ora io non ho progetti. Vorrei averli, ma non mi sono concessi. Ho a mia disposizione solo l’attimo presente. Ebbene, questo mi basta per dire Sì al Signore”.

E’ vero!

Basta l’attimo presente per costruire l’eternità, per glorificare Dio e amare i fratelli con tutte le proprie forze.

 

5) IL PENSIERO DELLA MORTE

La morte fa paura. Tale sentimento è normale, sta a dire che amiamo la vita.

È importante che impariamo per tempo a morire e che chiediamo al Signore la grazia di morire bene.

Ma come percepire la morte?

In uno dei miei controlli periodici il medico mi disse in modo scherzoso: “Reverendo, dimentichi l’attività, pensi di più alla sua anima”.

Ritornato a casa, mi presi un poco di riposo. Steso a letto, riandai a quella frase del medico. Anch’io l’avevo pro­nunciata più volte … ma a chi stava per morire.

Naturalmente pensai alla mia morte. La sentii come la fine di tutto. In quel momento mi raggiuse la Grazia di Dio. Fu come un’illuminazione: breve ma intensa, che mi lasciò una dolcezza squisita in fondo al cuore.

Vorrei riprovarla, ma mi basta quella. Vorrei comunicarla, ma le parole non sono adeguate.

Compresi chiaramente che “la morte è l’abbraccio con il mio Si­gnore”.

 

La vita è una cosa seria.

La malattia è ancora più seria.

La vita va riempita bene.

La malattia può completare in noi la passione del Signore.

Nella vita tutto è grazia.

Anche nella malattia è presente Dio.

Per sentirlo basta che ci abbandoniamo in Lui.

AL FUNERALE DI MIA MAMMA

Avverto in questo momento di dolore un senso di misteriosa bellezza. E’ la bellezza della fede cristiana che sgorga dalla Messa che stiamo celebrando: nella Messa la morte in croce di Gesù diventa un immenso rendimento di grazie. Quale forza terrena sa trasformare un dramma di sangue in salvezza per tutti?

Ora qui sento che la morte di mia mamma diventa un grande grazie.

 

1) Innanzitutto è giusto e salutare che io dica Grazie a Dio

E’ Lui che concesse a me e ai miei fratelli mamma Marietta così a lungo. Nata il 7 settembre 1905, domenica prossima avrebbe compiuto 98 anni. A tre giorni dalla nascita, il 10 settembre, fu battezzata: da allora la tenerezza di Dio si è stesa su tutta la sua vita.

–  Visse con fede anche gli ultimi anni, distribuendo bontà a tutti. Ogni mattina seguiva la Messa per radio. Recitava il Rosario più volte al giorno: aveva corone dappertutto; l’avevo chiamata “Regina del Rosario”. Aspettava volentieri il parroco per la confessione mensile. Disseminava in casa biglietti con brevi invocazioni: Signore, mantienimi la vista … Spirito Santo, dammi un po’ di luce … Maria Santissima, proteggi le mie famiglie.

– Si preparò alla morte con consapevolezza: si scelse il vestito… coltivò i vasi di foglie verdi da mettere presso la bara … si faceva leggere i testi di S. Paolo sulla risurrezione.

– Al momento della morte spalancò gli occhi: erano spenti, ma grandi … chissà cosa vedeva … Per lei stava iniziando la visione beatifica di quel Dio che già le aveva riempito la mente e il cuore.

 

2) Il secondo grazie lo dico a lei

Mamma Marietta fa parte di quelle donne “che si accontentano di poco e danno tanto”

– Dei suoi figli diceva: “ Li porto tutti nel mio cuore”. Per me, suo figlio prete, aveva un’attenzione particolare. Si giustificava dicendo: “Gli altri hanno le spose”.

– Ricordo che un giorno mi disse: “Don Luigi, camperei sempre per servirti”… per servirti … non per vivere di più …  non per godere di più… ma per servire me. Rimasi a guardarla mentre si ritirava silenziosa: quella piccola vecchietta è una grande donna.

– Il Giovedì Santo di quest’anno, tornato a casa dalla cattedrale, dove raccontai la mia testimonianza di trapiantato, mi accostai al sua capezzale: lei con fatica stava aggiungendo ancora un po’ di vita ai suoi tanti anni. Con il grande desiderio che mi capisse le ho gridato: “Mamma, oggi è la festa dei preti. Il Vescovo mi ha abbracciato. E tu che dono mi fai?” … Il suo volto si sciolse dai lineamenti del dolore e si aprì a un sorriso più eloquente della parola … Dio stava benedicendo il mio sacerdozio e mi introduceva nella Pasqua più vera della mia vita.

 

3) Il terzo grazie lo devo a chi la amò e l’assistette con pazienza e dedizione

– In questo ultimo periodo la mia casa mi sembrava divenuta un calvario. Invece non era il Golgota roccioso della croce; era il giardino primaverile della Pasqua di risurrezione, era il monte degli olivi aperto all’Ascensione.

–  In questo tempo della tribolazione nella mia casa sbocciarono come fiori tanti gesti di bontà! Dovrei fare un lungo elenco. Lo evito. I volti e i nomi di questi “Angeli di bene” sono scolpiti nel cuore di mia mamma, mio e di Dio. Grazie a tutti voi che avete assistito lei e me: siete parte preziosa del mio essere.

 

4) E ora un accenno al suo testamento spirituale: è scritto in nessun pezzo di carta ma solo nella mia vita.

a- In quaresima tornando a casa dopo una mia confessione, le dissi: “Mamma, Dio mi ha perdonato. Tu mi perdoni?” Sentivo il rimorso per vari sgarbi e trascuratezze. Mi rispose: “ Certo … sei mio figlio”.

Nel mio cuore scese tanta luce e tanta pace. Mia mamma con quella frase semplice mi fece sentire quanto è grande la misericordia di Dio: Dio, perché padre, non può che perdonare tutto e sempre.

b- Il Giovedì santo di ritorno dalla Missa Chrismalis in Cattedrale, al termine della quale avevo fatto la testimonianza del mio trapianto di cuore, le dissi: “Mamma, oggi è la festa dei preti. Il Vescovo mi ha dato un abbraccio. Tu che cosa mi dai?”. Nella sua immobilità mi fece un bel sorriso di compiacenza.

Sento che quel sorriso continua ancora. Ora in Paradiso la sua gioia per il mio sacerdozio si è fatta più grande.

c- Prima che iniziasse il suo declino inarrestabile, un giorno mi accennò che sentiva vicina la sua fine. Le dissi: “Hai così fretta di lasciarmi solo?… Pensa: se te ne vai, io di chi sarò?” Lei subito mi chiarì: “Hai la chiesa … ama quella … e ti basta”. Mi sembrò di sentire Gesù in croce che affida Giovanni a Maria: “Ecco tuo figlio”, e Maria a Giovanni: “Ecco, tua Madre”

Il testamento spirituale più impegnativo che mia madre mi consegna, lo vedo raffigurato nel gruppo statuario di questo altare del Crocifisso che sta qui alla destra del presbiterio

 

Ora non mi resta altro che essere sempre più prete e di servire sempre meglio la Chiesa. Grazie, mamma!

IL CUORE DI MAMMA

Era la sera di Natale. La giornata in parrocchia era stata intensa. Ter­minata l’ultima messa, quella vespertina, mi ritirai in studio. Annotavo alcune cose da ricordare. Seduto in poltrona assaporavo qual­che attimo di sollievo.

Ad un tratto si aprì la porta.

Entrò mia madre: 86 anni, occhi vivaci, comportamento sciolto, volto dolce. In mano teneva le ciabatte.

Senza proferire parola, abbassandosi davanti alla scrivania, le depose accanto ai miei piedi.

Provai disagio, come quando si riceve un dono inaspettato. Pensai a Gesù che lava i piedi ai discepoli.

Mia madre si alzò.

Standomi davanti dritta, si lasciò scappare, non tanto dalle labbra, ma dal cuore, questa dichiarazione: “Io vivrei sempre per servirti!”.

Per servirti, mi ha detto.

Non per divertirmi… Non per campare di più…

La guardai stupito: mi sembrava diventata grande, grande.

Senza dirmi altro se ne andò.

Quello fu il più bel regalo di Natale.

Il giorno dopo avevo a pranzo alcuni sacerdoti. Mia madre ci serviva. Attesi che mi venisse vicina. Con modi da smemorato le dissi: “Mam­ma, ieri sera quando mi hai portato le ciabatte, mi hai detto qualcosa. Potresti ricordarmelo?… Cosa hai detto?” .

Desideravo sentire ancora quella dichiarazione, anche per farla cono­scere ai confratelli.

Mia madre finse  di non capire … Insistetti … Lei si fece seria: forse intuì la mia intenzione, forse si rese conto d’aver detto una cosa troppo grande.

Con tono franco mi rispose:

“Quello che si dice con il cuore, non lo si ripete la seconda volta”. E se ne andò svelta per non incuriosire i presenti.

Grazie, Signore, per avermi dato mia madre! Grazie, perché me la concedi cosi a lungo!

Dobbiamo guardare con pia comprensione al “cuore di donna” che ci sta accanto:

è il cuore della mamma,

il cuore della sposa,

il cuore della sorella.

Come è grande il progetto di Dio, che dice: “Non è bene che l’uomo sia solo. Gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”.

PRETE DA 50 ANNI: 1962 – 2012

 

– 1 –

Testimonianza fatta nel Duomo di Montichiari al termine della Messa Concelebrata con il Vescovo Mario Vigilio Olmi

DIO NON DELUDE:

fare il prete riempie il cuore e la vita. Più che un cinquantesimo di Messa, stiamo vivendo una festa del sacerdozio; stiamo celebrando la bellezza del sacerdozio: è bello essere prete ed è ancora più bello esserlo e viverlo insieme.

Personalmente mi sento avvolto dal mistero: è il mistero di Dio che oggi adoriamo e lodiamo nella sua meravigliosa Trinità. Mi pongo alcune domande e non riesco a darne una risposta: Perché mi sono fatto prete? Come ho fatto a fare il prete per tanti anni? Perché sono ancora vivo con un cuore che non è mio? Da dove mi viene la voglia di fare ancora il prete?

Il mistero mi avvolge e mi affascina: sento che è un mistero d’amore; nella mia vita tutto è dono. Con Santa Teresina di Gesù Bambino, la santa che preferivo nella mia adolescenza e giovinezza, dico: “Canterò in eterno le misericordie del Signore”.

Dico Grazie al Signore, al Seminario, a sua Eccellenza Mons Olmi che si prese a cuore la mia malattia, a tanti confratelli, al presbiterio di Montichiari con l’Abate Mons. Gaetano Fontana, a Mons. Franco Bertoni per i 19 anni trascorsi insieme.

Dico Grazie a tutti voi: mi date più di quanto merito. Porto in cuore le comunità in cui esercitai il mio ministero: 15 anni a Verolanuova come curato, 11 anni a Botticino Mattina come parroco, 3 anni a Borgosatollo come parroco, 10 anni come Consigliere presso la Coldiretti,  21 anni qui a Montichiari come collaboratore e confessore.

Permettetemi di dire un grazie particolare a mia mamma che da 9 anni è in paradiso e che mi accompagnò per 41 anni. Una sera vedendomi sofferente e stanco mi portò le ciabatte, me le accostò ai piedi e fissandomi con sguardo intenso, mi disse: “Io camperei sempre per servire te”. Ringrazio anche i miei familiari e chi ora mi segue con premura.

Saluto, per i cammini spirituali che condividiamo, le Comunità religiose delle Suore Missionarie di Gesù Sacerdote, le Piccole Figlie del Sacro Cuore, le Madri Canossiane, i Silenziosi Operai della Croce e i Volontari della Sofferenza, il Pro familia e il suo gruppo delle vedove, le Figlie di Sant’Angela e altri consacrati. Ricordo Don Dino Foglio che nel momento per me più difficile contribuì a ravvivare il mio sacerdozio, facendomi conoscere il RnS, che saluto insieme alle Equipes Notre Dame, alla San Vincenzo e altri gruppi incontrati.

Il Signore mi diede anche un ANGELO CUSTODE, in carne ed ossa, che mi fece da Padre Spirituale per quasi tutta la mia vita e per qualche tempo anche da Rettore. Sintetizzo il mio cammino spirituale in sette CONSIGLI che lui di volta in volta mi diede, senza rendersi conto di quanto avrebbero inciso in me.

Primo consiglio:

Da poco ero in seminario. Avevo appena 11 anni. Andai per la prima volta a confessarmi da lui. Dopo avermi ascoltato, mi fece notare che avevo la tasca della giacchetta scucita. Arrossii dalla vergogna. Lui mi insegnò: “La tasca rotta sta proprio male: un’altra volta sii più attento. Però ricordati: il peccato è peggio di una tasca rotta: rompe l’amicizia con Gesù”.

Secondo consiglio:

Avevo 20 anni. Mi ponevo un sacco di domande: “Perché farmi prete proprio io? Perché il Signore non si sceglie qualcun altro?   A me non occorrono le sue preferenze”.  In quel periodo nell’orto del seminario c’era un pesco fiorito. Il mio Angelo Custode in carne ed ossa me lo indicò e mi disse: «Tra poco quei fiori cadranno; al loro posto si formeranno saporosi frutti. Anche tu spogliati dei tuoi sogni e delle tue ambizioni; allora darai molto frutto; scegli se vuoi vivere per te o per il Signore».

Terzo consiglio:

23 giugno del 1962. Ancora profumato dal Crisma dell’Ordinazione, tornai in Seminario a prendere la valigia per recarmi a casa. In portineria mi venne incontro lui, l’Angelo Custode in carne ed ossa. Mi sorrise e mi disse: ”Ora sei Sacerdote. Il Signore ti ha elevato. Ricordati: più si è in alto, se si cade, maggiore è il rischio di farsi male; anche da preti si può cadere; cadere da preti fa molto male a te e alla chiesa”.

Quarto consiglio:

Dopo 15 anni da curato, il Vescovo mi affidò la parrocchia. Il passaggio fu per me difficile. Scoraggiato andai dall’Angelo Custode in carne ed ossa. Lui mi ascoltò e mi disse: “Osserva l’acqua: scorre su ogni superficie, scivola in ogni fessura, logora pietre, sgretola rocce: in silenzio, senza pretese, con costanza. Fa anche tu come l’acqua: entra nelle fessure dei cuori, delle famiglie, degli eventi, delle situazioni … con umiltà e pazienza … Non tu ma la Grazia vincerà ogni resistenza”.

Quinto consiglio:

Venne la malattia: non potevo più fare attività; resistevo ai Superiori che mi chiedevano di rinunciare alla parrocchia. L’Angelo Custode in carne ed ossa venne a trovarmi. Conversammo a lungo. Alla fine mi disse: «Vivi il tuo celibato fino in fondo: allora, nell’Ordinazione, rinunciasti agli affetti familiari; ora rinuncia anche alla passione per la parrocchia».

Sesto consiglio:

Con il trapianto di cuore mi sentii rinato. Provai la nostalgia della parrocchia. Ancora una volta mi rivolsi all’Angelo Custode in carne ed ossa. Gli chiesi: «Lei cosa mi consiglia?». Mi rispose: «Al sale basta sciogliersi per insaporire. Anche tu: lasciati sciogliere dall’amore di Dio per i fratelli … questo basta perché tu dia sapore alla vita tua e di altri».

Settimo Consiglio:

Anche per il mio Angelo Custode in carne ed ossa venne il suo declino fisico. Andai a trovarlo. Mi disse: “Nella vita le certezze sono poche. Abbiamo però una grande speranza: la promessa di Gesù di darci il centuplo quaggiù e la vita eterna”. Queste sue parole mi hanno suggerito una delle mie briciole di bontà dal titolo: Dio non delude. Vi verrà distribuita al termine della celebrazione.

Ora sono carico di anni e di acciacchi, eppure continuo a imparare ad essere prete e a fare il prete.

Imparo ad abitare di più la chiesa: a godere i sui spazi, a respirare il profumo delle celebrazioni, a lasciarmi avvolgere dal silenzio, a immergermi nella preghiera corale dell’assemblea, a stare alla presenza del mio Signore, ad ascoltare l’anima di tanti fratelli. Chi cerca un libro va in libreria, chi cerca il pane va nel panificio, chi cerca un muratore va sul cantiere. I fedeli sono contenti di trovare il più possibile il prete in chiesa.

Imparo anche ad abitare la piazza. È un via vai di gente. Ognuno porta il suo peso quotidiano: chi va in ufficio, chi al lavoro, chi a scuola, chi sta al bar, chi scivola tra le bancarelle del mercato in cerca di acquisti. E’ bello stare lì: offrire la propria presenza, un sorriso perché il Signore te lo ha messo dentro, un saluto, una “Briciola di bontà”: alcuni la chiedono, altri l’attendono, qualcuno la rifiuta: qui resto male non perché rifiutano un foglietto, ma perché respingono la mano che si tende amica; comunque il saluto, dato, non può mai essere spento. Questo mi fa sentire vicino a Gesù che stava tra la folla.

 

– 2 –

Testimonianza fatta il Giovedì Santo in Cattedrale al termine della Missa Crismalis anche a nome degli altri miei 30 confratelli di ordinazione

L’ANIMA MIA MAGNIFICA IL SIGNORE  …  GRANDI COSE HA FATTO IN ME L’ONNIPOTENTE.

Le parole sono poche e povere, ma i sentimenti sono tanti e intensi. Le diciamo insieme, noi ordinati cinquant’anni fa, il 23 giugno del 1962, da sua Eccellenza Giacinto Tredici.

Vogliamo dire “GRAZIE” al Signore per il dono del sacerdozio e per il periodo storico in cui l’abbiamo vissuto e lo stiamo vivendo: il sacerdozio ci ha riempito la vita e il cuore.

Iniziammo il nostro ministero alla vigilia del Concilio Vaticano II: fu come una primavera per la chiesa. Poi esperimentammo la fatica del rinnovamento postconcilare nella liturgia, nella catechesi, nella pastorale. Fummo coinvolti nei piani decennali della CEI: risposte ponderate e coraggiose alle provocazioni prima della contestazione e poi della secolarizzazione. Vivemmo l’episcopato di Mons. Giacinto Tredici, di Mons. Luigi Morstabilini, di Mons. Bruno Foresti, di Mons. Giulio Saguineti, e ora di Mons. Luciano Monari.

Diciamo grazie anche al seminario di allora che ci formò. Diciamo grazie a tutto il presbiterio diocesano perché siamo contenti di farne parte: è bello fare il prete, farlo insieme è ancora più bello.

Giovanni Paolo II, ricordando la sua ordinazione Sacerdotale, accennò a quando si prostrò  a terra e poggiò la fronte sul pavimento della chiesa. Sentì l’odore della polvere, il freddo della pietra. Pensò all’importanza del pavimento su cui gli altri camminano. Immaginò di essere come il pavimento su cui tanti possono camminare verso Gesù. Lui fu un grande pavimento per la chiesa e per l’intera umanità.

Noi, più che un pavimento, fummo delle semplici mattonelle, per l’esattezza trenta mattonelle. Il Vescovo ci posò qua e là per la diocesi, dove c’era bisogno perché i fedeli potessero andare da Gesù.

Ora gli anni sono passati: con gioia e gratitudine celebriamo il cinquantesimo di sacerdozio. Si dice anche: “Messa d’oro”: quanto sarebbe bello, se ogni messa, celebrata in tanti anni, fosse “Messa d’oro”!

Alcune di quelle trenta mattonelle si infransero: pensiamo ai nostri compagni defunti. Le altre portano i segni del tempo. Ora siamo tutti carichi di anni e di acciacchi. Siamo più dei cocci che delle mattonelle; ma siamo sempre pronti a ridire al Signore, nonostante tutto, ogni giorno, il nostro “Eccomi”, perché siamo pienamente consapevoli che al Signore basta dei semplici ciottoli per fare il mosaico della sua chiesa e del suo cielo.

 

– 3 –

Testimonianza fatta nella chiesa di Vighizzolo, frazione dove nacqui e che animai mentre era in attesa del nuovo parroco

È una grazia del Signore per me celebrare, nel mio cinquantesimo di Messa, la Pasqua nella chiesa dove fui battezzato, feci la Prima Confessione e la Prima Comunione, imparai a servire all’Altare e, avvertii i primi richiami al Sacerdozio.

Qui nella mia chiesetta d’origine rivedo il Crocifisso che baciai per la prima volta in vita mia. In questi giorni sono ritornato a baciarlo di nuovo, l’ho fatto restaurare perché ritornasse bello come allora. Durante la celebrazione del Venerdì Santo l’ho innalzato davanti all’assemblea, me lo sono stretto sul cuore: il primo Crocifisso che baciai in vita mia! L’ho consegnato agli adolescenti, l’ho affidato loro come un bene prezioso da custodire. Loro, alternandosi, l’hanno sostenuto per tutto il tempo in cui fedeli si sono susseguiti a baciarlo: ho ammirato la loro serietà e la loro convinzione.

Qui nella mia chiesetta di origine rivedo anche la statua di Maria Immacolata: davanti a questa statua quanto pregai! La guardavo e le confidavo i miei sogni, le mie fatiche, anche le mie fragilità! Quanti rosari recitai! Lei mi accompagnò nel mio cammino vocazionale.

Durante le vacanze dopo la 4 ginnasio, le chiesi una grazia speciale. Ero stufo del seminario e non volevo più studiare. Lei, l’Immacolata, avrebbe dovuto convincere i superiori a scrivermi una lettera per lasciarmi a casa. Per ottenere questo le feci anche una bella novena. La lettera non arrivò mai. Ritornai in seminario contro voglia e con tanta rabbia con Lei: mi sembrava che non mi stesse ascoltando.

Invece la grazia me la fece, ma a modo suo. Dopo 9 mesi alla fine della quinta ginnasio i superiori mi ammisero alla Vestizione: il Vescovo mi consegnò la Veste Talare. Quando la indossai avevo 16 anni; da allora l’ho quasi sempre portata. Ritengo che questo sia stato uno scherzo materno di Maria, Madre dei Sacerdoti. Ora lascio a voi giudicare se Maria Immacolata fece proprio bene ad ascoltarmi in quel modo.

Vi comunico anche che ho fatto testamento. Ve lo dico in dialetto: «Làse la òiò de fa èl pret a chi la völ  (Lascio la voglia di fare il prete a chi la vuole)».

 

Gloria alla Santissima Trinità. Amen. Amen.

LA CONFESSIONE, DA ME VISSUTA E CELEBRATA - Testimonianza di Don Luigi Lussignoli

La misericordia del Signore ha inondato tutta la mia vita, lasciando segni indelebili nella mia memoria. Qui in semplicità condivido con voi alcuni passaggi che mi hanno aiutato a crescere.

1) Il mio pianto dopo la mia prima confessione

1946: ero nell’mio ottavo  anno.  La catechista mi preparò alla Prima Confessione e alla Prima Comunione: lo fece con amore ma anche con severità. Ogni giorno con i miei compagni ci riuniva nella chiesetta di campagna;  lì ci faceva ripete per farcele imparare a memoria le cinque condizioni per una valida confessione e la preghiera per la richiesta del perdono. Ricordo il suo sorriso compiaciuto quando qualcuno incominciava a dirle da solo.

A quei tempi le Prime Comunioni venivano celebrate la mattina presto del Giovedì Santo. Nel pomeriggio della vigilia la catechista ci riunì in chiesa. Ci mise seduti nel banco e per stare raccolti ci invitò a mettere la testa tra le nostre mani. Ci suggerì un lungo esame di coscienza. Ci raccomandò di dire tutto al sacerdote, perché al Signore non si può nascondere nulla e il suo occhio vede nel nostro cuore.

Giunto il mio turno, andai a inginocchiarmi davanti al sacerdote: era seduto su una grande sedia, indossava la cotta bianca e la stola viola. Nel vedermelo davanti la mia mente andò in confusione: non sapevo più cosa dire. Ricordo che il sacerdote mi diede l’assoluzione e mi raccomandò di salutargli i miei genitori. Scesi nel banco tra i miei compagni con l’animo smarrito e il volto segnato dalla vergogna.

Quando tornai a casa, appena varcato il portone del cortile, scoppiai in un pianto sconsolato. La mamma mi corse vicino e mi chiese cosa era successo. Con la gola soffocata dal singhiozzo le dissi: «Non sono stato capace di confessarmi bene. Al prete non ho detto tutto e il Signore ha visto che non sono sincero».

La mamma mi strinse a sé, mi baciò in fronte e mi disse: «Il Signore, ogni volta che guarda un bambino come te, sorride di gioia: a lui piaci come piaci alla tua mamma».

Poi mi portò dal sacerdote e gli raccontò l’accaduto. Il prete questa volta mi guardò paternamente e mi rassicurò: «Tu eri confuso, ma io ti ho capito e con me ti ha capito il Signore. Tutti i tuoi peccati sono perdonati. Anzi per dirti che piaci al Signore, dopo la Prima Comunione incomincerai a servire all’altare: sarai il chierichetto di questa chiesetta». Poi aggiunse: «Sono certo che quanto ti è accaduto, ti servirà».

Fu un profezia. Divenni sacerdote e nel mio ministero cercai sempre di far vivere sia ai ragazzi che ai loro genitori la Confessione come una vera FESTA DEL PERDONO.

 

2) La mia confessione decisiva

1954: ero nel mio sedicesimo anno e avevo superato gli esami del ginnasio. I superiori mi concessero di indossare la veste talare non solo in seminario, ma anche a casa e in parrocchia. La cosa mi piacque, ma poi cominciò a turbarmi. Ero in piena adolescenza: incerto nelle mie scelte, fragile nei miei propositi, superficiale nella preghiera. Andai dal Padre Spirituale; gli disse: «Padre, sono un secchio vuoto. Non posso presentarmi alla gente in veste talare: non ne sono degno». Parlammo a lungo. Dopo avermi ascoltato con pazienza mi disse: «Confermo: sei proprio un secchio vuoto. Continua a esserlo, perché in un secchio già pieno non si può mettere niente altro. Dio è misericordioso perché riempie i nostri cuori umili del suo amore. Anche Maria, la madre di Gesù, nel suo Magnificat cantò: “Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva. Lui in me ha fatto grandi cose:” Continua a fare il secchio vuoto e Dio ti riempirà la vita».

Mi diede l’assoluzione. Uscii dalla sua stanza rincuorato e deciso a continuare il mio cammino vocazionale.

Quel giorno il mio Padre Spirituale mi indicò il segreto per rendere serena la mia vita: fidarmi della misericordia di Dio che sempre e tutto perdona.

 

3) L’inizio della malattia

1990: ero nel mio cinquantaduesimo anno; ero parroco da poco in quella parrocchia. Mi sembrava di viaggiare a grande velocità sulle strade dei miei progetti pasto­rali. La malattia, la miocardiopatia dilatativa, mi si presentò inaspettata e irrompente. Ricordo i particolari della prima visita medica. In ospedale mi confermarono la stessa diagnosi con la prospettiva del trapianto di cuore. Non mi pareva possibile. Consultai altri specialisti. Il verdet­to era sempre lo stesso. Mi sentivo confuso. Non accettavo consigli nemmeno da chi mi voleva bene. Mi ribellavo perfino al Signore.

E il Signore mi concesse la grazia di fare ”verità in me”.

I medici e i superiori insistevano perché ridimensionassi la mia vita. Mi chiedevo: “Cosa vorrà il Signore da me?”. Prima di rinunciare alla parrocchia, con il tormento nell’anima, tornai in ospedale dal medico che mi seguiva: era una donna stimata per competenza professionale e per la sua fede.

Le chiesi con insistenza medicine più forti. Lei mi consigliò: “Il tuo cuore non può fare più di tanto. La­scia l’attività pastorale. C’è bisogno di confessori che sappiano ascoltare. Diventa prete dell’ascolto”.

Non so se quella dottoressa fosse ispirata. Comunque sia, ora non sono più parroco. Ascolto il cuore del mondo. Ascolto il gemito di tanti fratelli. Mi dedico soprattutto al ministero delle confessioni. Cerco di diffondere speranza.

 

4) Io ti assolvo

Sono parole di una efficacia immensa: rivelano il perdono di Dio, danno pace alle coscienze. Quante volte le  vado pronunciando nel confessionale, dove passo buona parte del mio tempo. Nel confessionale esperimentato personalmente che la misericordia di Dio è infinita: più grande è il nostro peccato, maggiore è  il perdono di Dio. Cristo Risorto ha dato agli apostoli una missione grande: «A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati», e a ogni uomo la certezza che tutto può essere rinnovato con la confessione.

Continuo a stare in confessionale a distribuire il perdono di Dio e vedo tanta gioia fiorire nel cuore della persone. Con Santa Teresina di Gesù Bambino faccio mie le parole del salmo 88: «Canterò senza fine la misericordia del Signore».

Talvolta mi trovo a osservare le mie mani: sono mani di uomo, ma unte con il Crisma: innalzano l’Ostia consacrata, la distribuiscono ai fedeli, benedicono, assolvono. Mi fermo alla mano destra, quella che traccia il segno di croce sul penitente che si è confessato: mi sembra la mano che distribuisce la carezza di Dio. Ecco cosa è l’assoluzione: la carezza di Dio alle nostre anime.

UNA STRETTA DI MANO DI MIO PADRE

1950. Finalmente l’anno scolastico finì. Iniziarono le vacanze. Dalla prima fui promosso alla seconda media. Lasciato il seminario, tornai alla mia casa: posta al centro della frazione, vicina alla chiesa, circondata da una vasta campagna sempre bisognosa di braccia e di mani che la coltivassero. Portavo con me la valigia piena di indumenti e di libri. Arrivato in cortile, i primi che mi corsero incontro a salutarmi, sono stati i miei fratelli. Mamma e papà mi attesero sotto il portico. Andai da loro contento di rivederli. Mio padre mi afferrò con la sua mano robusta e ruvida una delle mie e la trattenne tra la sua. Guardandomi, mi disse:

«Mi hanno detto che in seminario ti sei comportato bene … Hai imparato a studiare e a pregare … Ma sento che questa tua mano non è più la mano di mio figlio … è troppo vellutata e raffinata … Ricordati che tu sei figlio di un lavoratore dei campi … Adesso che sei in vacanza impara a lavorare. Ho già preparato la tua vanga, la tua zappa, il tuo tridente, il tuo rastrello … Per diventare un buon prete devi prima essere un bravo lavoratore».

1977. Mio padre morì a sessantacinque anni in casa di suo figlio prete. La domenica prima che morisse, a noi suoi figli convenuti attorno al suo letto, con voce tenue e con un po’ di ironia disse:

«Ho fatto testamento. Lascio a tutti: du brass bu e la òiò de doperai = lascio due braccia buone  e la voglia di usarle»

Mio padre era proprio sfinito, ma la passione per il lavoro pulsava ancora forte nel suo sangue.

LE PREGHIERE DELLA MIA INFANZIA

Mia mamma mi insegnò a pregare fin da piccolo: Quando mi preparava alla preghiera, lo faceva con così tanta grazia da piacermi proprio tanto: mi sembrava che il suo volto si illuminasse e che la sua voce si facesse particolarmente dolce; mi metteva in ginocchio sulla sedia con i gomiti appoggiati sul tavolo, le mani giunte e gli occhi rivolti al quadro della Sacra Famiglia appeso alla parete della cucina. Con tenerezza materna mi faceva ripete in dialetto le parole di una preghiera che sgorgava dal suo cuore:

«Signùr, ciapà el me curisì, anche se l’è picinì. Quant sàro pö grand, t’èn dàro pö tant …:  Signore, prendi il mio cuoricino, anche se è piccolo. Quando sarò grande, te ne darò più tanto».

D’estate, quando le giornate erano lunghe e si faceva chiaro presto, lei, mia mamma, dalla cucina dove stava preparando la colazione con il latte che il papà aveva appena munto, ci chiamava per farci alzare, perché in cascina c’era sempre qualcosa da fare anche per noi ragazzi. La sua voce risuonava energica per le camere. Diceva con la sua autorevolezza materna:

«Luigi, saltò en pè … Lià  sö. Ve a ardà che bèl spetàcol. El sul el gh’a sa empienìt de luce la campagna. Ve zó nel curtil … El sul farà bel anche el tò facì … Arda  quantò luce el Signùr el sa regalò , senzò mandàs nèsöne bulète da pagà … : Luigi, salta in piedi … Alzati. Vieni a vedere un bel spettacolo. Il sole ha già riempito di luce la campagna. Vieni giù nel cortile … il sole renderà bello anche il tuo viso … Guarda quanta luce il Signore ci regala, senza mandarci nessuna bolletta da pagare».   

Ora sono prete anziano, carico di anni e di malanni; eppure recito sempre volentieri le preghiere che allora mia mamma mi insegnò.